LOVE THE UNICORN
★★★
Love the Unicorn è una band indie rock italiana, formata a Roma dai fratelli Marco ed Emiliano Salah nel 2011. Dopo qualche concerto in giro per la penisola, i Love the Unicorn debuttano con il loro primo EP dal titolo “Sports” uscito per We Were Never Being Boring (A Classic Education, Be Forest…) nel marzo del 2013. Nelle diverse date dell’ultimo tour, la band ha avuto anche il piacere di condividere il palco con Summer Camp, Splashh, Swim Deep, Holograms e The Drums e di dar vita ad una versione UK dell’EP uscito per Dufflecoat Records (Alpaca Sports, Acid House Kings…) nel 2014. Nello stesso anno Emiliano lascia la band e viene sostituito da Lorenzo Zandri (tastiere e organi), permettendo alla band di iniziare i lavori per il loro primo album dal titolo “A Real Thing” in uscita il 22 gennaio 2016 per We Were Never Being Boring. Il nuovo sound della band pur mantenendo atmosfere dreamy, è fortemente influenzato dalla musica degli anni ’60 e ’70 e da gruppi indie rock americani dell’ultimo decennio.

HIGH MOUNTAIN BLUEBIRDS
★★★
Psichedelia: termine greco dalle parole “psykhe” (anima) e “dèlos” (chiaro, evidente..) in quanto allargamento della coscienza.
Probabilmente non tutte le coscienze degli ascoltatori di questo EP staranno straripando, ma di sicuro il disco è un bel sentire.
Loro sono gli High Mountain Bluebirds, studenti universitari di Mestre che rispondoni ai nomi di Jacopo Sacrato (chitarra, synth, voce), Pietro Giuliani (batteria, percussioni) e Luca Bertomoro (basso, synth).
I tre provengono da esperienze e progetti musicali diversi poi accumunati dalla passione per il rock psichedelico.
Le influenze di questo movimento Californiano di metà anni ’60 si evincono soprattutto nei riffs di synth presenti nell’EP, il tutto ben miscelato a sonorità squisitamente brit; basti ascoltare Amplify your love (senza dubbio cavallo di battaglia), per ritrovarsi col pensiero in un fatiscente club di camden town a soreggiare un indie-tea.
Fantastici i cori, ben curati e amalgamati con la voce principale, probabilmente per richiamare l’attenzione della Girl On The Bus Stop Bench; spiccano tra le note come un fiore nel deserto, Desert Flower, terza traccia dal ritmo andante sposato (a Las Vegas) con riff di chitarra richiamanti addirittura melodie country/celtiche.
Il progetto si chiude in bellezza con Crystal, un po’ emblema del gruppo, nonché collante di tutto il disco: batteria ritmata quasi da marcia, i The Doors in mente ed una malinconia nella linea di voce che non può non ricondurre a Seattle..
“Gli anni ‘60 sono svaniti, la droga non potrà mai più essere così a buon mercato, il sesso mai così libero e il rock and roll mai così grande.”