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Transitato nelle acque purificatrici di Yeasayer e Caribou, Born Ruffians e Of Montreal, quasi sempre seduto dietro uno schermo di batteria, il polistrumentista Ahmed Gallab sta costruendosi un percorso individuale esclusivo sotto lo pseudonimo di Sinkane. Con Mean love edito per DFA records, si è giocato il poker dalla mano giusta. Le composizioni sono state monitorate da Greg Lofaro, che è riuscito effettivamente a plasmare una piccola icona d’uomo; il mixer è stato lavorato da Albert Difiore (che qui ha suonato anche il clavinet) uno che la sa lunga di ingegneria del suono (Beck, Olga Bell, Bernie Worrell, Rhys Chatham). Gallab ha diretto invece un pool di turnisti giovani ma attenti.
Per comprenderne il meticciato rovistare nei fatti privati è voyeurismo, ma perlomeno è un atto doveroso poichè Ahmed pare sia figlio di esuli politici sudanesi scampati al regime militare del NIF. Un tasto che se premuto in modo congruo proietta graffi al posto di note nei dischi: guerra civile temporaneamente data per chiusa con la creazione di uno stato del Sud, corruzione dilagante e neocolonialismo da land grabbing(concessione/accaparramento della terra da parte di compagnie transnazionali) fanno del Sudan un caso di geopolitica mondiale irrisolto. Quella di Sinkane è una lacerazione a distanza certo e di seconda generazione, ma comunque presente nel suo DNA come una cosa viva. Calibrando dunque, fin dagli esordi di Color Voice (2008), a cui seguono Sinkane e Mars, ricordi viaje, meltin’pot americano e dignità d’appartenenza, il Nostro riesce in un afro-pop masticabile ma per nulla interlocutorio, che mescola, fino a produrne un liquido unico, la ritmica e le buone vibrazioni della New Orleans deiMeters.
Fa venire alla mente, non senza strappare un compiaciuto sorriso, lo Stevie Wonder inhouse della Motown già non più “little”, e il jazz funk di Fela Kuti,Tony Allen e Nomo, con divagazioni nell’ethio, nell’electrochaabi meno sbracato, nella psichedelia e nel country. Tutto coscientemente trapelato in una quadra guarnita coi synthetismi di ultima generazione – quelli propri di alcune band per cui è stato diligente turnista – ma con un lasciapassare rilasciato per giusta condotta dalla cultura afroamericana.
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